Ci sono situazioni in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo va di pari passo con lo sfruttamento dell’ambiente e degli animali non umani. Sta circolando il tam-tam che alcuni giorni addietro nella Patagonia argentina la gendarmeria ha represso, aprendo il fuoco, esponenti del popolo mapuche che si erano ripresi le proprie terre da Benetton. Questo è l’ultimo episodio di un lungo conflitto tra i Mapuche e la famiglia Benetton. Tutto ha inizio nel 1991 quando l’impresa italiana acquisisce la compagnia Tierras de Sur Argentino, principale proprietaria di terre nella Patagonia argentina. La Benetton diviene in questo modo proprietaria di 900 mila ettari di terre. La maggior parte di queste costituiscono il luogo ancestrale degli indigeni mapuche argentini, i quali vengono sfollati dall’habitat su cui hanno da sempre vissuto. Sin dall’inizio le comunità indigene si sono mobilitate contro la multinazionale italiana, opponendo resistenza e iniziando una lotta per recuperare i loro territori. Alla ricerca di una giustizia ambientale e sociale alternativa i Mapuche si sono inoltre uniti alla lotta contro le multinazionali avviata da numerosi popoli indigeni nel Tribunale Permanente dei Popoli (TPP). I Benetton sono diventati la più grande proprietaria terriera del paese sudamericano: nelle terre di Benetton vengono allevati 260 mila capi di bestiame, tra pecore e montoni, che producono circa un milione e 300 mila chili di lana all’anno, i quali sono interamente esportati in Europa. Nello stesso terreno vengono anche allevati sedicimila bovini destinati al macello. E’ bene ricordare che I Benetton ricevono sussidi da parte del governo argentino per l’attuazione del loro piano d’investimento. Inoltre l’impresa attua una politica sfavorevole che incentiva il fenomeno della discriminazione lavorativa contro i Mapuche. In breve i rapporti tra l’azienda e la popolazione locali sono andati sempre più peggiorando a seguito della crescita del numero degli sfratti e della trasformazione delle terre ancestrali in fonte di lucro per l’impresa.
Contro tutto ciò – e altro ancora (vedi la condizione dei lavoratori in Bangla Desh che confezionano abbigliamento Benetton) – è in corso una campagna internazionale per boicottare i prodotti a marchio Benetton (v. http://www.girodivite.it/United-dolors-of-Benetton.html).
Si leggono e si sentono dire tante inesattezze a proposito dei popoli cosiddetti incontattati: sulla loro effettiva esistenza, sui loro usi e costumi, sull’utilità o meno di proteggerli, sul rapporto con il mondo “civilizzato” e molte altre cose ancora. Per questi motivi proponiamo una lettura con alcune domande/risposte sul tema, formulate proprio da Survival International, l’organizzazione che della tutela dei diritti di queste popolazioni ha fatto la sua ragione d’essere.
Esistono tribù “sconosciute” o “perdute”?
No, si tratta solo di mero sensazionalismo. È estremamente improbabile che esistano tribù la cui esistenza sia completamente sconosciuta a qualcun altro.
Cosa si intende per “incontattate”?
Quando si parla di “tribù incontattate” ci si riferisce a gruppi umani che non hanno contatti pacifici con nessun membro delle culture o delle società dominanti. Nel mondo esistono circa 100 tribù incontattate.
Questo significa che non hanno contatti con nessun altro in assoluto?
No, tutti i popoli hanno dei vicini, anche quando sono molti distanti, e sanno della loro esistenza. Nel caso delle tribù incontattate, questi vicini potrebbero essere i membri di un’altra tribù, con cui potrebbe avere o meno relazioni amichevoli.
Potrebbero aver avuto contatti in passato?
Probabilmente sì. Alcune tribù potrebbero essere state in contatto con la società colonialista in passato, magari nei secoli scorsi, e poi essersi ritirate per sfuggire alle violenze veicolate dal contatto. Alcuni gruppi facevano parte di popoli più grandi, da cui si sono separati durante la fuga.
Alcune tribù che oggi vivono solo di caccia e raccolta, in passato coltivavano gli orti. Potrebbero aver smesso di coltivare perché costretti alla fuga continua.
Continuano a vivere nello stesso modo in cui vivevano nei secoli passati?
Assolutamente no, nessuno di loro. Grazie al commercio inter-tribale, alcuni gruppi amazzonici hanno cominciato ad usare le armi prima di incontrare i non-Indiani. Moltissime tribù incontattate fanno uso di utensili di metallo trovati, rubati o scambiati con i loro vicini, da molti anni, se non addirittura da generazioni. I popoli incontattati delle Isole Andamane usano pezzi di metallo provenienti da vecchi relitti. La patata dolce, l’alimento principale delle tribù polinesiane da molto prima del loro contatto con gli Europei, proviene dal Sud America.
Esistono società “incontaminate” o “originali”?
Tutti i popoli cambiano nel tempo, costantemente e in tutte le epoche, e così anche le tribù incontattate. Survival non parla di tribù o culture “incontaminate”. Non sono arretrate né primitive. Semplicemente, vivono in modo diverso.
Da quanto tempo vivono là?
Generalmente i popoli tribali vivono sulle loro terre da molte generazioni, se non da millenni.
Alcuni sostengono che l’esistenza delle tribù incontattate sia una menzogna.
Alcuni “primi contatti” vengono messi in scena a beneficio dei turisti, ma esistono veramente tante tribù realmente incontattate, e se ne scoprono continuamente di nuove. Spesso sono sorprendentemente vicine a gruppi umani con cui sono state in contatto per decenni, o anche più a lungo.
Cosa pensa Survival dell’ingresso nei loro territori?
Survival ritiene che nessuno dovrebbe avvicinare tribù che non siano già in regolare contatto con gli esterni. È pericoloso per tutti. Rendiamo pubblica, a grandi linee, la loro posizione solo se e quando è necessario per proteggere le loro terre.
I brasiliani usavano compiere spedizioni di “primo contatto”. Cosa ne pensa Survival?
Chi ha guidato tali spedizioni se né è pentito. Credeva che il contatto fosse necessario per salvare gli Indiani, ma spesso la tribù finiva con l’essere annientata in ogni caso. Oggi, l’opinione illuminata è quella che gli Indiani debbano essere lasciati soli e che lo sforzo debba concentrarsi sulla protezione del loro territorio.
Volare sulle loro terre non è comunque un tipo di contatto?
A volte è necessario farlo per verificare se si sono spostati altrove o se stanno subendo attacchi e invasioni. Può rivelarsi anche molto importante per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla loro situazione, e persino per dimostrarne l’esistenza. È necessario quando l’obiettivo è salvarle dalla distruzione, ma ovviamente, non si deve mai sorvolarle per piacere o turismo.
Ma il vedere gli aerei non condiziona la visione che le tribù hanno del mondo?
Le tribù incontattate vedono gli aerei passare sopra le loro terre da tanto tempo. L’idea che questo possa danneggiare la loro immagine di sé o le loro religioni è pura fantasia, basata sulla falsa supposizione che le loro culture siano fragili. L’esperienza dimostra che sono, in realtà, forti e capaci di adattarsi. A distruggere i popoli tribali non sono la vista o l’introduzione di oggetti esterni, bensì le violenze e le malattie che accompagnano l’invasione delle loro terre.
Come reagiscono ai sorvoli?
Si nascondono o mostrano ostilità. Ci fanno chiaramente capire che vogliono essere lasciati soli.
Forse si isolano perché non vedono i lati positivi del “nostro” stile di vita? Se li conoscessero, forse si unirebbero a noi…
Non ne avrebbero l’opportunità. In realtà, il futuro che gli viene offerto è solo quello di entrare a far parte della nuova società al livello più basso possibile – spesso come mendicanti e prostitute. La storia dimostra che solitamente i popoli tribali precipitano in una condizione molto peggiore dopo il contatto, e spesso si tratta della morte.
Perché sono in pericolo?
Gli stranieri vogliono la loro terra o le sue risorse. Vogliono sfruttarne il legname o i minerali, costruire dighe e strade, aprire allevamenti, insediamenti di coloni e tanto altro. Di solito il contatto è violento e ostile, ma i sicari più infidi sono spesso malattie comuni da noi, come influenza e morbillo, verso cui i popoli incontattati non hanno immunità; spesso queste epidemie li uccidono.
Di cosa hanno bisogno?
Che le loro terre siano protette.
Non possiamo certo lasciarli soli per sempre!
Se l’alternativa è la loro distruzione, perché no? A chi spetta la scelta, a loro o a “noi”? Se un popolo vuole stabilire un contatto con una società più ampia, trova certamente il modo di farlo. Se pensiamo siano esseri umani, allora hanno anche dei diritti umani. Il problema è che è ancora molto diffusa l’opinione che si tratti di persone primitive e incapaci di decidere per se stesse.
Perché lottare tanto per la loro sopravvivenza?
Prima di tutto, perché sono i popoli più vulnerabili del pianeta. Se vogliamo difendere i diritti umani, dovremmo sicuramente preoccuparci di chi soffre le minacce più gravi.
Secondariamente, i loro stili di vita, le loro lingue, le loro conoscenze delle piante e degli animali del loro ambiente (incluse le piante medicinali), sono unici. Sanno cose che noi ignoriamo.
Infine, essendo i popoli “più diversi” dagli altri, contribuiscono in modo incalcolabile alla diversità della vita umana. Se la diversità è importante in ogni ambito, questa è certamente tra le più preziose.
Pensare di poterli salvare è solo utopistico romanticismo?
No, significa invece affermare il diritto dei popoli di decidere per loro stessi piuttosto che essere distrutti per mano di una società invadente. Nessuno può pensare che sia “romantico” opporsi al colonialismo, alla schiavitù, all’apartheid o alla morte.
Apprendiamo che Survival International ha presentato formale istanza all’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) contro Salini Impregilo S.p.A. – il gigante del settore ingegneristico italiano – in merito alla costruzione della controversa diga Gibe III destinata a distruggere i mezzi di sussistenza di migliaia di persone tra Etiopia e Kenya.
La diga ha messo fine alle esondazioni stagionali di un fiume da cui 100.000 indigeni dipendono direttamente per abbeverare le loro mandrie e coltivare i campi, mentre altri 100.000 vi dipendono indirettamente. Secondo gli esperti, la diga potrebbe anche segnare la fine del Lago Turkana – il più grande lago in luogo desertico del mondo – con conseguenze catastrofiche per altri 300.000 indigeni che vivono intorno alle sue sponde.
L’Impresa in questione non ha chiesto il consenso alla popolazione locale prima di avviare i lavori di costruzione della diga, e ha inoltre affermato che i popoli sarebbero stati compensati delle loro perdite grazie a esondazioni artificiali. Ma tale promessa non si è mai concretizzata e migliaia di persone ora rischiano di morire di fame.
La regione, già preziosa in quanto culla dell’evoluzione umana, è anche un’area di eccezionale biodiversità, che conta due siti dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità e cinque parchi nazionali. Il responsabile dell’Agenzia keniota per la Conservazione ha dichiarato la settimana scorsa che la diga sta provocando “uno dei peggiori disastri ambientali che si possano immaginare.”
Dal canto suo, durante una visita alla diga nel 2015 Matteo Renzi ha apertamente elogiato l’azienda italiana. (Non ci stupiamo: è lo stesso Presidente del Consiglio che ha dato il via libera alle trivelle nel Mediterraneo).
“Eppure, Salini ha ignorato evidenze schiaccianti, ha fatto false promesse e ha calpestato i diritti di centinaia di migliaia di persone” ha dichiarato Stephen Corry per conto di Survival International. Per dirla con semplici parole: derubare della loro terra popoli largamente autosufficienti e causare ingenti devastazioni ambientali non è ‘progresso’: per i popoli indigeni e per l’ambiente non è altro che una sentenza di morte.
Per che desidera partecipare concretamente alla mobilitazione in corso contro la costruzione della diga può inviare una e-mail al Direttore Generale della Cooperazione italiana Giampaolo Cantini per chiedergli di assicurare che i soldi dei contribuenti italiani non siano usati – direttamente o indirettamente – per sostenere lo sfratto dei popoli della valle dell’Omo.
“Survival International” ha pubblicato la seconda edizione del rapporto Il progresso può uccidere. Invitiamo a leggerlo (da vedere e da scaricare qui). Ci limitiamo a riportare le parole con cui la direttrice italiana di Survival, Francesca Casella, presenta la pubblicazione:
“Appropriarsi della terra dei popoli indigeni e imporre loro il nostro modello di sviluppo è causa di una miseria inenarrabile. I fatti sono indiscutibili, anche se spesso i libri di storia li tacciono o sminuiscono. A distruggere i popoli indigeni non è mai stata la mancanza di ‘progresso’, bensì il furto della loro terra e delle loro risorse, che molti hanno cercato di legittimare arrogandosi il presunto dovere di affrancare le tribù da una presunta arretratezza. Ma i popoli indigeni non sono né arretrati né primitivi. Non lo sono mai stati. Sono solo diversi, perché diverse sono le risposte che hanno dato alle sfide della vita. Ed esattamente come tutti noi, anche loro hanno continuato a evolversi e adattarsi a un mondo in perenne cambiamento. I dati che abbiamo raccolto nella nuova edizione del rapporto Il progresso può uccidere rappresentano solo la punta di un immenso iceberg fatto di malattie, frustrazioni, dipendenza e suicidi. (…) I popoli indigeni che vivono nelle loro terre sono invariabilmente più sani, e godono di una qualità di vita di gran lunga migliore di quella di milioni di cittadini impoveriti e marginalizzati da una crescente disuguaglianza mondiale. Garantire che possano continuare a mantenere il controllo delle loro terre e dei loro stili di vita è fondamentale non solo per il loro futuro, ma anche per quello dell’intera umanità. E nel caso in cui abbiano già perso la loro terra a causa della nostra avidità e del nostro razzismo, allora dobbiamo lottare per aiutarli a recuperarne quanta più possibile! Solo così potranno ricostruire la loro identità e la loro autosufficienza. Per i popoli indigeni, il vero ‘progresso’ comincia con il riconoscimento dei diritti territoriali e continua con la possibilità di decidere autonomamente del proprio sviluppo. Ma senza terra e libertà, cesseranno addirittura di esistere. Non possiamo permetterlo”.
Ricaviamo le informazioni che seguono dalle news di Survival International.
In breve: negli ultimi giorni, i Guarani (popolazione che vive principalmente nelle foreste del Brasile) hanno subito una serie di attacchi terribili, sistematici e premeditati da parte di sicari armati al servizio dei proprietari terrieri che occupano le terre ancestrali delle comunità.
Ad esempio a Nanderu Marangatu hanno assassinato un giovane leader e ferito con proiettili di gomma anti-sommossa altre persone, tra cui un bambino di un anno. Il 3 settembre, la comunità di Guyra Kambi’y è stata circondata da decine di veicoli pieni di allevatori e sicari armati. Hanno aperto il fuoco ripetutamente contro il villaggio costringendo gli indiani, compresi compresi bambini, a fuggire e a nascondersi nei piccoli lembi di foresta sopravvissuti. Poi hanno dato fuoco alle case e distrutto tutto. Ieri, altri sicari hanno rapito una trentina di Guarani di Pyelito Kuê spargendo sangue e terrore. Una donna è stata picchiata e stuprata. Gli strumenti di Tribal Voice forniti da Survival alla comunità per documentare la situazione sono stati distrutti.
Si sparano colpi contro i Guarani ogni giorno. E la cosa straziante è che i Guarani sanno che rioccupare parte delle loro terre ancestrali significa rischiare la vita. Ciò nonostante, non si arrenderanno. Perché senza la loro terra, senza la loro tekoha, non hanno speranza. E più nulla da perdere.
Per Survival il sostegno di tutti è vitale per la sopravvivenza dei Guarani. Ecco cosa si può fare:
Scrivere alla presidente del Brasile per chiederle di demarcare le terre dei Guarani e fermare l’assassinio dei loro leader;
Sostenere la campagna di Survival per i Guarani. Ogni euro raccolto aiuterà i Guarani a difendere i loro diritti umani, a riconquistare le terre ancestrali, a difendere le loro vite, a ripristinare i loro orti. Nessun importo sarà mai troppo piccolo.
Scrivere all’ambasciata brasiliana in Italia.
E’ vero, le giornate dedicate a un qualche anniversario, istituite da questa o quella organizzazione internazionale, possono lasciare perplessi: c’è il pericolo di cadere nell’ufficialità calata dall’alto, nella retorica che non smuove un filo d’erba, se non peggio. Ciononostante ci sembra giusto a volte ricordare qualche ricorrenza, se non altro perchè può essere un’occasione per invitare a una pausa di riflessione. Oggi 9 agosto è la Giornata Internazionale dei Popoli indigeni indetta dall’ONU.
Per tale occasione l’Associazione per i Popoli Minacciati (http://www.gfbv.it/) ha pubblicato un nuovo rapporto sulla situazione degli attivisti indigeni. In esso si dice che per gli attivisti indigeni di tutto il mondo chiedere il rispetto dei propri diritti o protestare per la salvaguardia delle proprie terre significa letteralmente rischiare la vita. In molte parti del mondo, alzare la voce a favore delle popolazioni indigene comporta la concreta probabilità di diventare vittima di assassinii di stato, di arresti arbitrari, di essere condannati a lunghe pene detentive ingiustificate, di subire torture o gravi limitazioni della libertà di movimento e di parola.
Il nuovo rapporto dell’APM mette in evidenza le pratiche adottate da governi e multinazionali per assicurarsi profitti economici senza riguardo delle comunità indigene e delle loro terre. Il rapporto analizza la situazione di dieci paesi in Asia, Centroamerica, Sudamerica e nella federazione Russa, mostrando le metodologie violente, prive di scrupoli messe in campo da latifondisti, governi e multinazionali per realizzare megaprogetti per lo sfruttamento di risorse naturali quali petrolio, gas, minerali, legname, ma anche di costruzione di dighe o per favorire il traffico di droga.
E’ importante sottolineare che i membri delle comunità indigene sono al contempo attivisti per l’ambiente particolarmente motivati, proprio perché la loro sopravvivenza come comunità dipende in gran parte dall’ambiente: la loro agricoltura sostenibile e i fortissimi legami con la propria terra, da cui traggono il senso di appartenenza comunitaria, dipendono dal rispetto per la natura e l’ambiente. Viceversa la realizzazione di megaprogetti sulla loro terra implica la distruzione dell’ambiente, l’avvelenamento dei terreni e spesso la messa in fuga o la deportazione delle comunità indigene che ci vivono. Per questi uomini e queste donne ciò significa cadere nel baratro della povertà estrema, delle malattie, della perdita dei legami comunitari e delle proprie radici culturali e spirituali. Va pure ricordato che storicamente i popoli indigeni si sono sempre opposti a qualsiasi tentativo da parte degli estranei di definire la loro identità o influenzare le loro strutture tradizionali di governance.
Per tutto questo ricordiamoci dei popoli indigeni e dei loro diritti calpestati: oggi 9 agosto, giornata a loro dedicata, ma, ovviamente, non solo oggi…
I mondiali di calcio in Brasile sono alle porte e, insieme ad essi, arrivano pure tutte le assurdità del Barnum calcistico. L’associazione Survival International ha reso noto una serie di informazioni che mettono in relazione lo svolgimento dei mondiali con le condizioni di vita delle popolazioni indigene. E’ utile leggerle perchè i grandi organ di stampa preferiscono non parlarne. Basti questa notizia: il governo brasiliano ha stanziato 791 milioni di dollari per il sistema di sicurezza da mettere in atto durante la Coppa del Mondo; è una cifra almeno tre volte superiore al budget annuale del suo Dipartimento agli Affari Indigeni, sempre a corto di finanziamenti.
Chi intende dare il suo contributo a sostegno delle popolazioni indigene può andare a questa pagina di Survival International e seguire le loro proposte.
Gli stadi di calcio sono costruiti sui territori indigeni, e la recente ricchezza del paese deriva dallo sfratto degli Indiani e dal furto delle loro terre. A seguire alcune informazioni su questi stadi e sui popoli nativi che vivono nei dintorni.
Stadio Maracanã (Rio de Janeiro): Maracanã è una parola indigena tupi che significa pappagallo (ma può anche riferirsi al maraca-na – un sonaglio fatto di semi usato dai Guarani durante le cerimonie religiose). Con l’inizio dei lavori di ricostruzione dello stadio in vista della Coppa del Mondo, circa 70 Indiani appartenenti a 17 diverse tribù furono sfrattati da un edificio del XIX secolo, vicino allo stadio. Gli Indiani che lo abitavano volevano che l’edificio venisse preservato come Centro Culturale Indigeno, ma è stato raso al suolo per fare spazio a un gigantesco parcheggio e a un museo sul calcio. Nel 1910 quella casa coloniale aveva ospitato il primo Istituto di ricerca culturale indigena del Brasile. Subito dopo divenne l’ufficio principale per il Servizio di Protezione dell’Indio (l’odierno FUNAI). Fino al 1978 fu la sede centrale del Museo del Popolo Indiano del Brasile.
Stadio Cuiabá (Mato Grosso): tra le tribù che vivono in quest’area ci sono i Nambiquara, gli Umutina e i Pareci. Gli Umutina furono decimati dal morbillo e da altre malattie. Nel 1862 erano 400, ma nel 1943 ne sopravvivevano solo 73. Oggi il loro numero sta lentamente crescendo. I Nambiquara soffrirono terribilmente quando la fertile vallata del loro territorio ancestrale fu attraversata dalla superstrada BR-364, finanziata dalla Banca Mondiale. Erano 7.000 nel 1915, ma nel 1975 ne erano rimasti solo 530. Oggi i Nambiquara sono 2.000 ma le loro terre sono ancora invase dai cercatori di diamanti, dai taglialegna e dagli allevatori.
Stadio di Belo Horizonte (stato di Minas Gerais): A circa 100 km a nord-est di Belo Horizonte si trova un territorio indigeno chiamato “Fazenda Guarani”, abitato dai Krenak e dai Pataxó. Entrambe le tribù hanno subito enormi perdite nel tentativo di resistere all’espansione della frontiera coloniale. Negli anni ’60 lo stato brasiliano istituì due prigioni segrete gestite dalla polizia militare per punire e rieducare gli indigeni che resistevano all’invasione delle loro terre. La Commissione Nazionale brasiliana per la Verità sta ancora indagando sui maltrattamenti degli Indiani nelle prigioni.
Stadio di Manaus (stato di Amazonas): sarà l’unica città amazzonica a ospitare la Coppa del Mondo. L’architettura dello stadio riprende lo stile di un cesto indigeno. Verso la fine del XVIII secolo la città di Manaus crebbe notevolmente grazie ai proventi del boom della gomma. Decine di migliaia di indigeni furono ridotti in schiavitù e costretti a estrarre la gomma. Nei confronti degli Indiani furono commesse atrocità terribili: a migliaia morirono per le torture, la malnutrizione e le malattie. Alcuni riuscirono a evitare la schiavitù rifugiandosi presso le sorgenti più remote degli affluenti del Rio delle Amazzoni, dove ancora oggi vivono cercando di evitare ogni contatto con la società nazionale. A un centinaio di chilometri da Manaus c’è il territorio dei Waimiri Atroari. La tribù oppose una valorosa resistenza ai cacciatori e ai lavoratori della gomma che invadevano il loro territorio; molti Indiani morirono negli scontri violenti. La tribù fu però contattata negli anni ’70, quando il governo spianò la loro foresta per costruire una superstrada. Centinaia di indigeni morirono per le malattie e negli scontri violenti con le unità dell’esercito inviate per sedare la resistenza. La Commissione Nazionale brasiliana per la Verità sta indagando sulle atrocità commesse in quel periodo nei confronti dei Waimiri Atroari.
Stadio di Brasilia: A solo cinque ore di macchina da Brasilia, alcuni piccoli gruppi di Indiani si nascondono nella vasta macchia spinosa. Sono gli Avá Canoeiro, gli ultimi 24 sopravvissuti di una tribù forte e fiera costretta a una vita in fuga dal 1780, e oggi sull’orlo dell’estinzione.
Stadi nel nord-est del Brasile: Recife, Salvador, Fortaleza e Natal: Delle 23 tribù della costa nord-orientale, solo i Fulnio hanno mantenuto la loro lingua. Quest’area fu una delle prime a essere colonizzate, ed oggi è teatro di alcuni dei conflitti territoriali più accesi. I Pataxó Hã Hã Hãe lottano da decenni per il loro diritto alla terra; nel corso del tempo hanno subito numerose violenze e i loro leader sono stati assassinati. A sei ore di macchina da Salvador, i Tupinambá vengono presi di mira dalla polizia, che ha assaltato i loro villaggi per sfrattarli dalle terre e fare spazio agli allevamenti di bestiame. Nell’agosto 2013 quattro Tupinambá sono stati uccisi e il loro corpi mutilati, e 26 case sono state distrutte.
“In futuro non ci sarà più nessuno capace di vivere la cultura boscimane se non ostentandola davanti ai turisti, per le agenzie che ci sfruttano per profitto”. Questo è quanto ha dichiarato Roy Sesana, leader dei Boscimani, a una giornalista dalla BBC parlando delle condizioni disperate dei Boscimani nei campi di reinsediamento istituiti dal governo.
E’ risaputo che alcune delle pitture rupestri delle colline Tsodilo del Bostwana potrebbero avere ventimila anni, o forse più, e sono opera degli antenati dei Boscimani contemporanei, che possono quindi affermare a pieno titolo di essere uno dei popoli più “indigeni” e “nativi” del pianeta. Pur vivendo lì da tempo immemorabile, i Boscimani non sanno cos’è uno stato, cosa siano i confini territoriali e tutto il resto. Ma il governo del Botswana non desiste dall’obiettivo di mettere fine all’esistenza degli ultimi cacciatori-raccoglitori del Kalahari.
Alla minaccia posta dai diamanti, recentemente si è aggiunta anche quella del fracking. Il governo ha infatti deciso di aprire la Central Kalahari Game Reserve (CKGR) allo sfruttamento del gas attraverso questa tecnica controversa, che comporta enormi consumi di acqua e genera sottoprodotti chimici tossici. In quanto membro di Conservation International, il presidente Khama dovrebbe sapere bene che numerosi scienziati e ambientalisti criticano aspramente il fracking. Eppure, ha scelto di ignorarlo, così come continua a ignorare la Corte suprema del suo paese, che nel 2006 ha chiuso il lungo processo giudiziario intentato dai Boscimani con una sentenza storica che riconosce loro il diritto di vivere e cacciare liberamente nella terra ancestrale.
Da quando sono stati rinvenuti giacimenti di diamanti nella riserva, molti anni fa, i Boscimani hanno cominciato a essere perseguitati dalle autorità in modo sistematico e senza sosta. Sono stati sfrattati dalle loro case e costretti a vivere in squallidi campi di reinsediamento; sono stati privati dell’acqua, intimiditi, arrestati e persino torturati con l’accusa di cacciare.
Con un provvedimento che ricorda l’Apartheid applicato un tempo in Sudafrica, oggi le autorità costringono i Boscimani anche a chiedere un permesso temporaneo per visitare le loro famiglie. Fermarsi nella Central Kalahari Game Reserve oltre il limite comporta l’arresto. E l’avvocato britannico, Gordon Bennet, che in passato li ha difesi con successo, nel luglio scorso è stato bandito dal paese. Personaggi autorevoli parlano di “pulizia etnica” e di trattamento “sub-umano”. Condanne sono venute, tra gli altri, anche dal Relatore Speciale ONU e dalla Commissione Africana dei Diritti Umani e dei Popoli.
Ma se da un lato il governo fa tutto quello che può per portare questo popolo sull’orlo dell’estinzione, dall’altro non esita a sfruttarlo come attrazione turistica. Sui depliant appaiono immagini patinate e costruite di Boscimani nell’atto di praticare la caccia e altre attività tradizionali che, di fatto, gli sono proibite. Impedire ai Boscimani di cacciare, così come hanno sempre fatto per millenni in perfetto equilibrio con la fauna e la flora del Botswana, significa togliergli letteralmente la possibilità di sopravvivere.
I Boscimani meritano di essere trattati con dignità e rispetto. Non è possibile permettere che venga cancellata una comunità che è parte irrinunciabile del nostro futuro.
Per questo Survival International ha lanciato una campagna per fare pressione dell’opinione pubblica. Questo è il link al sito di Survival International per seguire e sostenere la campagna in difesa dei Boscimani. Anche questo è un modo per difendere la Terra. Anche questa è ecoteologia.