Una breve riflessione (da comune-info.net), a dir poco attuale, di Lea Melandri sul tema del conflitto, sulla possibilità di un vivere comune, non negando ma passando proprio attraverso il conflitto; non per eliminare, azzerare l’avversario ma per trovare una soluzione nuova e creativa, sapendo fare i conti con tutto ciò che ci attraversa, dentro e fuori di noi, soprattutto con le parti oscure, l’insieme di ombre che volentieri vorremmo evitare. Quanta religione è prosperata sull’idea di una lotta titanica tra la luce e la tenebra! E che incubo il pensiero di un mondo totalitario dominato dalla luce, senza chiaroscuri, senza tramonti, senza spazi notturni o umbratili!
“Si tratta di imparare a convivere con tutto ciò che abbiamo rimosso e abbandonato come una anomalia inammissibile. Si tratta di capire in che modo l’essere umano, l’essere umano così com’è, l’essere umano con il suo fondo di costitutiva oscurità, possa costruire le condizioni di un vivere comune ‘malgrado’ il conflitto e anzi ‘attraverso’ il conflitto, mettendo fine al sogno o all’incubo di chi vorrebbe eliminare tutto ciò che vi è in lui di ingovernabile”.
(Benasayag e Del Rey, Elogio del conflitto, Feltrinelli 2008)
Dire che nel vissuto del singolo si danno, concentrati e confusi, bisogni, identità, luoghi, rapporti, passioni, fantasie, interessi e desideri diversi, è riconoscere che c’è un “territorio” che sfugge o esorbita dai confini della vita pubblica – e quindi irriducibile al sociale –, che è la vita psichica, una terra di confine, tra inconscio e coscienza, tra corpo e pensiero, in cui affondano radici ancora in gran parte inesplorate.
Le “viscere” razziste, xenofobe, misogine, su cui la destra antipolitica ha fatto breccia per raccogliere consensi, è il sedimento di barbarie, ignoranza e antichi pregiudizi ma anche sogni e desideri mal riposti, che la sinistra, ancorata al primato del lavoro e della classe operaia, ha sempre trascurato, come se dopo il grande balzo operato da Marx non ci fossero stati altri rivolgimenti altrettanto radicali, come la psicanalisi, il femminismo, la non violenza, la biopolitica, l‘ambientalismo.
Non dovrebbe essere difficile riconoscere che lo “straniero”, il “povero”, il “fuori norma”, il migrante ridotto alle necessità vitali, incarnano, portandolo in questo momento allo scoperto, il “rimosso” originario di una civiltà che, separando corpo e linguaggio, biologia e storia, ha costruito sbarramenti, frontiere fin dentro i corpi e la vita psichica, e posto le premesse perché quella demarcazione andasse progressivamente a scomparire.
Il ritorno di ciò che è stato escluso – i corpi, la vita dei singoli nella sua complessità e interezza, passioni, fantasmi contraddittori – può tradursi in una inevitabile barbarie, ma può anche riaprire la strada al desiderio e al conflitto, alla possibilità di ridefinire su basi meno astratte il legame sociale.
Lea Melandri
L’essere umano è – ci dicono gli acculturati – homo loquens, cioè animale di linguaggio. Cosa significhi ciò non è possibile dirlo nello spazio di un post, mancano le parole, letteralmente. Qui ci interessano alcune parzialissime osservazioni in merito a certe modifiche in atto nell’uso di alcuni termini, poco più di una manciata di parole. A ben vedere, sono questioni non sono linguistiche, ma anche civili, politiche e altro ancora. Questo è il discorso del testo sottostante di Lidia Menapace, apparso su www.italialaica.it.
I qualificativi elencati nel titolo possono servire per rendere i nostri discorsi meno approssimativi, vaghi, noiosi, allusivi, ambigui di quanto non siano diventati, non per scelta, bensì per passivizzazione. Infatti approssimazione allusività ambiguità non sono sempre per sè negativamente connotati, ma perchè possano esprimere un senso positivo bisogna che vengano usati con criterio, spirito critico, avvertenze d’uso, conoscenza del loro etimo, ironia ecc.
Proponiamo questo intervento di Roberto Esposito, apparso sul quotidiano “La Repubblica” e successivamente ripreso sul sito di “Micromega”. Presenta un’interessante riflessione sul nesso tra religione e capitalismo, alla luce proprio dell’attuale crisi finanziaria.
«Nel capitalismo può ravvisarsi una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni». Queste fulminanti parole di Walter Benjamin – tratte da un frammento del 1921, pubblicato adesso nei suoi Scritti politici, a cura di M. Palma e G. Pedullà per gli Editori Internazionali Riuniti – esprimono la situazione spirituale del nostro tempo meglio di interi trattati di macroeconomia. Il passaggio decisivo che esso segna, rispetto alle note analisi di Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, è che questo non deriva semplicemente da una religione, ma è esso stesso una forma di religione.
Con un solo colpo Benjamin sembra lasciarsi alle spalle sia la classica tesi di Marx che l’economia è sempre politica sia quella, negli stessi anni teorizzata da Carl Schmitt, che la politica è la vera erede moderna della teologia. Del resto quel che chiamiamo “credito” non viene dal latino “credo”? Il che spiega il doppio significato, di “creditore” e “fedele”, del termine tedesco Gläubiger. E la “conversione” non riguarda insieme l’ambito della fede e quello della moneta? Ma Benjamin non si ferma qui. Il capitalismo non è una religione come le altre, nel senso che risulta caratterizzato da tre tratti specifici: il primo è che non produce una dogmatica, ma un culto; il secondo che tale culto è permanente, non prevede giorni festivi; e il terzo che, lungi dal salvare o redimere, condanna coloro che lo venerano a una colpa infinita. Se si tiene d’occhio il nesso semantico tra colpa e debito, l’attualità delle parole di Benjamin appare addirittura inquietante. Non soltanto il capitalismo è divenuto la nostra religione secolare, ma, imponendoci il suo culto, ci destina ad un indebitamento senza tregua che finisce per distruggere la nostra vita quotidiana.
Già Lacan aveva identificato in questa potenza autodistruttiva la cifra peculiare del discorso del Capitalista. Ma lo sguardo di Benjamin penetra talmente a fondo nel nostro presente da suscitare una domanda cui la riflessione filosofica contemporanea non può sottrarsi. Se il capitalismo è la religione del nostro tempo, vuol dire che oltre di esso non è possibile sporgersi? Che qualsiasi alternativa gli si possa contrapporre rientra inevitabilmente nei suoi confini – al punto che il mondo stesso è “dentro il capitale”, come suona il titolo di un libro di Peter Sloterdijk (Il mondo dentro il capitale, Meltemi 2006)? Oppure, al di là di esso, si può pensare qualcosa di diverso – come si sforzano di fare i numerosi teorici del postcapitalismo? Intorno a questo plesso di questioni ruota un intrigante libro, originato da un dibattito tra filosofi tedeschi, ora tradotto a cura di Stefano Franchini e Paolo Perticari, da Mimesis, col titolo Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione. Da un lato esso spinge l’analisi di Benjamin più avanti, per esempio in merito all’inesorabilità del nuovo culto del brand. Tale è la sua forza di attrazione che, anche se vi è scritto in caratteri cubitali che il fumo fa morire, compriamo lo stesso il pacchetto di sigarette. Come in ogni religione, la fede è più forte dell’evidenza. Dior, Prada o Lufthansa garantiscono per noi più di ogni nostra valutazione. Le azioni cultuali sono provvedimenti generatori di fiducia cui non è possibile sfuggire. Non a caso anche i partiti politici dichiarano “Fiducia nella Germania” a prescindere, non diversamente da come sul dollaro è scritto “In God we trust”.
Ma, allora, se il destino non è, come credeva Napoleone, la politica, ma piuttosto l’economia; se il capitale, come tutte le fedi, ha il suo luoghi di culto, i suoi sacerdoti, la sua liturgia – oltre che i suoi eretici, apostati e martiri – quale futuro ci attende? Su questo punto i filosofi cominciano a dividersi. Secondo Sloterdijk, con l’ingresso in campo del modello orientale – nato a Singapore e di lì dilagato in Cina e in India – si va rompendo la triade occidentale di capitalismo, razionalismo e liberaldemocrazia in nome di un nuovo capitalismo autoritario. In effetti oggi si assiste a un curioso scambio di consegne tra Europa e Asia. Nel momento stesso in cui, a livello strutturale, la tecnologia europea, e poi americana, trionfa su scala planetaria, su quello culturale il buddismo e i diversi “tao” invadono l’Occidente. La tesi di Zizek è che tra i due versanti si sia determinato un perfetto (e perverso) gioco delle parti. In un saggio intitolato Guerre stellari III. Sull’etica taoista e lo spirito del capitalismo virtuale (ora incluso nello stesso volume), egli individua nel buddismo in salsa occidentale l’ideologia paradigmatica del tardo capitalismo. Nulla più di esso corrisponde al carattere virtuale dei flussi finanziari globali, privi di contatto con la realtà oggettiva, eppure capaci di influenzarla pesantemente. Da questo parallelismo si può trarre una conseguenza apologetica o anche una più critica, se riusciamo a non identificarci interiormente col giuoco di specchi, o di ombre cinesi, in cui pure ci muoviamo. Ma in ciascuno dei casi restiamo prigionieri di esso.
È questa l’ultima parola della filosofia? Diverremo tutti, prima o poi, officianti devoti del culto capitalistico, in qualsiasi versione, liberale o autoritaria, esso si presenti? Personalmente non tirerei questa desolata conclusione. Senza necessariamente accedere all’utopia avveniristica del Movimento Zeitgeist o del Venus Project – entrambi orientati a sostituire l’attuale economia finanziaria con un’organizzazione sociale basata sulle risorse naturali –, credo che l’unico grimaldello capace di forzare la nuova religione del capitale finanziario sia costituito dalla politica. A patto che anch’essa si liberi della sua, mai del tutto dismessa, maschera teologica. Prima ancora che sul terreno pratico, la battaglia si gioca sul piano della comprensione della realtà. Nel suo ultimo libro, Alla mia sinistra (Mondadori, 2011), Federico Rampini percorre lo stesso itinerario – da Occidente a Oriente e ritorno – ma traendone una diversa lezione. All’idea di “mondo dentro il capitale” di Sloterdijk è possibile opporre una prospettiva rovesciata, che situi il capitale dentro il mondo, vale a dire che lo cali dentro le differenze della storia e della politica. Solo quest’ultima può sottrarre l’economia alla deriva autodissolutiva cui appare avviata, governandone i processi ed invertendone la direzione.
Roberto Esposito