Difendere la libertà religiosa ovunque! Questo – ricorrendo a un linguaggio “basso”, finanche sloganistico – è uno dei temi cari e ricorrenti nel presente blog. Può capitare allora, cosa strana se non paradossale, di dover prendere le difese dei musulmani, oggetto di discriminazione nientedimeno che dai buddhisti. E’ quello che sta accadendo in Birmania (o Myanmar, se si preferisce). Riprendiamo un articolo proveniente dal sito di italialaica (http://www.italialaica.it/) a firma di Attilio Tempestini. Si parla, nello specifico, delle discutibili prese di posizione in merito da parte di Aung San Suu Kyi, leader nonviolento, attiva da molti anni nella difesa dei diritti umani sulla scena nazionale del suo Paese e insignita del premio Nobel per la pace nel 1991.
In Birmania, la lotta per passare da un dittatura militare alla democrazia ha trovato un ben noto simbolo, in Suu Kyi: ed ha portato negli ultimi anni a notevoli risultati, tant’è che la stessa Suu Kyi è stata eletta in parlamento.
Negli stessi anni, peraltro, è sorto un conflitto che chiama in causa la religione: in quanto -cedo la parola al rapporto 2013, di Amnesty international – “varie comunità musulmane… sono state prese di mira” dalla comunità buddista. Vale la pena di ricordare, che la popolazione birmana è di fede musulmana per 4%, di fede buddista per 75%.
Quali sono, sul conflitto in questione, le posizioni di Suu Kyi? Nell’intervista pubblicata da ”Il manifesto”, lo scorso 3 novembre, appaiono poco favorevoli alla religione presa di mira. Così, ella contesta alla “comunità internazionale” di accusare per tale conflitto la sola religione buddista e di ignorare, che esponenti buddisti hanno subito violenze da parte del regime militare. Una contestazione, però, che evidentemente sposta l’asse del discorso dal rapporto attuale fra le due religioni, al precedente rapporto fra una di queste ed il regime militare.
Suu Kyi afferma, che il conflitto si risolverà se per la comunità musulmana, verrà riconosciuta la cittadinanza a chi ne ha diritto e verrà posta fine all’immigrazione illegale, dal vicino Bangladesh – dove, preciserei io, la religione musulmana sfiora quota 90% -. Non considera tuttavia, Suu Kyi, che proprio il perimetro di tale diritto alla cittadinanza rappresenta un problema: giacché una legge degli anni ’80 ha tolto la cittadinanza birmana, a quasi un milione di persone della comunità musulmana (cfr. www.amnesty.it/news/myanmar-nuove-violenze-nello-stato-di-rakhine).
Ma se, per il conflitto in discorso, Suu Kyi indica la soluzione suddetta, quale ne è a suo parere la causa? Ella sostiene che è, la “paura”. Che cioè, “in Birmania come in altri paesi del mondo, si ha la percezione e la paura che vi sia un potere musulmano globale che possa destabilizzare i paesi in cui questo potere si insinua”.
Ora, una paura così descritta -e dalla quale Suu Kyi non prende le distanze- rischia addirittura di far venire in mente paure che, nella Germania e nell’Italia della prima metà del Novecento, hanno notoriamente riguardato un’altra religione.
Nel contempo, giacché la paura descritta da Suu Kyi può evidentemente essere avvertita ben più dalla comunità buddista, che dalla comunità musulmana, vediamo delinearsi l’argomento che chiamerei clericale classico: siccome una religione è maggioritaria, occorre sintonizzarsi con la medesima e, quindi, con le sue paure.
Così come, vediamo l’argomento clericale classico prendere a suo sostegno quella che ne è una frequente, integrazione: secondo la quale, se in un paese devono valere di più coloro che -per quanto riguarda la religione- sono di più, è anche perché fuori sono di più loro.
Si potrà dire, allora, che Suu Kyi mostra come le vie della democrazia e della laicità non sempre coincidano?
Attilio Tempestini