All’incirca cinquant’anni fa (per la precisione nel 1958) nasceva a Bruxelles l’avventura della Poudrière, un’esperienza comunitaria fondata da Léon Van Hoorde, missionario degli Oblati di Maria. Nel corso degli anni – pur mantenendo saldi i principi che l’hanno fondata – La Poudrière ha via via modificato la fisionomia, tenendo così il passo coi tempi e con le emergenze che di volta in volta si affacciano. E’ una testimonianza, ricca, che merita conoscere, soprattutto ai nostri giorni, con la crisi economico-finanziaria che macina le vite di molte persone, lasciandole isolate di fronte al vuoto di comunità e di speranza. Proponiamo un articolo di Angelo Mastrandrea – apparso sabato scorso sul quotidiano “Il manifesto” – che ripercorre l’intera esperienza.

Esiste un luogo, oggi in Europa, in cui la proprietà privata è abolita ed è messa al bando ogni forma di individualismo. È un’oasi di resistenza al neoliberismo, un laboratorio di pratiche sociali alternative, un
esperimento radicale di vita comunitaria, una zona temporaneamente liberata dal capitalismo, come l’avrebbe definita il teorico americano Hakim Bey, dove gli abitanti come giapponesi nella foresta non si sono finora accorti della crisi che sta sconvolgendo l’Europa, o meglio il suo modello economico.
Chi pensa che stiamo esagerando, è scettico, dubbioso e vuole toccare con mano, deve solo fare lo sforzo di spostarsi fino a Bruxelles e, una volta arrivato a destinazione, spostarsi dal centro turistico e dalla Grand Place verso il quartiere dove sorgono gli edifici più antichi della città, fin quasi al ponte che separa il cuore della capitale del Belgio, geograficamente ma anche socialmente ed economicamente, dal melting pot di Molenbeek e, un po’ più a sud, di Anderlecht. Volendo, può chiedere ospitalità e un letto agli occupanti della Poudrière, l’antica polveriera oggi considerata monumento nazionale e diventata la quinta teatrale di un esperimento sociale che Riccardo Petrella, intellettuale di punta del movimento altermondialista e vecchia conoscenza dei lettori del manifesto, con entusiasmo neppure celato non esita a definire un «modello di comunismo realizzato», all’infuori del socialismo reale e a un passo dalle principali istituzioni europee.
Petrella da queste parti è di casa, non solo perché vive a Bruxelles, da anni ed è professore emerito all’università di Lovanio. In questo quadrilatero di stradine denominato le coin du diable, l’angolo del diavolo, in virtù di una leggenda risalente al XVII secolo e riguardante la costruzione del ponte che porta dall’altra parte della Senna, il professore ha sistemato un ufficio della sua Università del bene comune (con le facoltà dell’acqua, dell’alterità, della creatività, della mondialità) e ogni anno conferisce un dottorato honoris causa in Utopia a chi, singolo o collettivo, ritiene doveroso premiare per la sua visionarietà. Questo è il terzo anno in cui il riconoscimento verrà assegnato e, dopo l’avvocato calabrese Domenico Vestito, premiato per aver scelto di tornare a esercitare la professione nel paese d’origine, Locri, e per aver messo a disposizione di tutti le proprie competenze professionali, e dopo, noblesse oblige, la Poudrière, quest’anno la borsa di studio andrà a una comunità colombiana.
Comune? No, comunità
Non è una comune, la Poudrière, e nemmeno un condominio o un centro sociale occupato come quelli che conosciamo in Italia. È una comunità che, partendo da un’originaria spinta religiosa e dall’impulso di un gruppetto di preti operai, nel tempo si è trasformata in un progetto collettivo e socialisteggiante.
Tutto cominciò nel 1958, quando le numerose fabbriche costruite intorno ai canali che avevano fatto meritare a quell’area la definizione di «piccola Manchester», presero a chiudere una dietro l’altra e il quartiere divenne un piccolo cimitero industriale, con un tasso di povertà dickensiano. Fu per questo che quel pugno di missionari, guidati da padre Léon Van Hoorde, un uomo che ancora oggi, a quindici anni dalla morte, è ricordato come fondatore e leader carismatico, occupò la fabbrica dismessa, formando da subito una piccola comunità aperta al quartiere. Fu con il ’68 che l’originario spirito missionario si contaminò definitivamente con istanze laiche, senza che venissero però stravolti i suoi principi fondativi: presenza nella società senza adottare il suo stile di vita; amicizia; giustizia ed eguaglianza sociale; utopia nel cercare di costruire un mondo nuovo; crescita personale. Obiettivi da raggiungere attraverso il lavoro, la condivisione, uno stile di vita sobrio, l’aiuto reciproco tra i membri della comunità.
Chi entrava nella Poudrière doveva mettere in comune i propri redditi, «non il patrimonio» però, «per evitare di trasformarci in una setta», spiega Giovanni Morocutti, per tutti Vanni, che arrivò qui dalle Alpi friulane nel 1969 e che oggi è considerato un «saggio» della comunità, vero e proprio leader dopo la morte del fondatore padre Léon. Con il tempo, anche le case di fronte alla ex polveriera cominciarono a essere occupate, un edificio fu adibito a granaio e molti dei vecchi abitanti del quartiere, in segno di gratitudine, presero a lasciare le loro abitazioni in eredità alla Poudrière o a venderle loro a prezzi più che ridotti. Il risultato oggi, a 54 anni dall’occupazione, è che praticamente tutte le case che affacciano su rue de la Poudrière e alcune di quelle sulla tangenziale rue des Fabriques sono abitate da esponenti della comunità.
Tra immigrati e «gentrification»
Anche se in tutta l’area è ben visibile quella che gli americani chiamerebbero gentrification, vale a dire la risistemazione innanzitutto urbanistica del quartiere al prezzo di un aumento del valore degli immobili e
della progressiva espulsione dei ceti più poveri, che va di pari passo con la riconversione delle ex industrie abbandonate e la sistemazione dei ponti sul canale, il resto del coin du diable è ancora oggi in larga parte abitato da immigrati, in stragrande maggioranza nordafricani. Sono quelli che vediamo affollarsi nel mercato della Poudrière per acquistare gli oggetti usati ma rimessi a nuovo dagli occupanti o i prodotti delle fattorie che la comunità ha fondato a Rummen, nelle Fiandre, e che garantiscono loro l’autosufficienza alimentare. È aperto tre pomeriggi a settimana e, anche in questo senza timore di esagerare, possiamo garantire che con cifre che si discostano poco dal centinaio di euro si riesce ad arredare una casa intera.
Un altro mercato, più grande, è stato aperto in un ex cementificio a Peruwelz, alla frontiera con la Francia, e tutto ciò, grazie all’arte del riciclo e nonostante i prezzi a dir poco competitivi, ha fatto della Poudrière una comunità che tutto sommato riesce a vivere bene, con una gran cura di tutto ciò che è collettivo. Agiata ma ispirata alla sobrietà, e soprattutto con un principio: chi ne fa parte deve lavorare, in base alle proprie capacità, e i frutti del proprio lavoro devono essere messi in comune. «Noi non facciamo assistenza», ci tengono a precisare, «chi chiede di venire fra noi deve contribuire con il suo lavoro in base alle sue possibilità e gli sarà dato a seconda dei suoi bisogni». A decidere, con il metodo della democrazia consensuale, faticoso per loro stessa ammissione perché basta un solo veto a produrre ulteriori discussioni e slittamenti, è l’intera comunità: un’assemblea mensile, denominata «riunione spaghetti», è destinata alle decisioni più importanti, poi ci sono quelle settimanali o quotidiane per le cose minori. L’argent de poche, una sorta di mini salario di 25 euro a persona ogni settimana, serve invece per le piccole spese, che non necessitano di un’assemblea per essere decise. Al resto provvede la comunità, in base a un’analisi dei bisogni: cosa comprare? Il richiedente ne ha davvero necessità? Il consumismo non abita certo qui. Non che tutto sia totalitariamente collettivo: gli spazi personali sono garantiti, a cominciare dalla casa, l’importante è che vengano rispettate le regole della vita comunitaria.
Il pastore e la giovane infermiera
Gli abitanti della Poudrière, oltre al mercatino, svolgono un’attività ormai consolidata di traslocatori. «All’inizio non chiedevamo soldi ma ad ognuno di darci quello che poteva. Poi ci siamo accorti che i più ricchi spesso erano quelli che pagavano meno e così siamo stati costretti a mettere delle tariffe, variabili a seconda del committente. Per i più poveri traslochiamo gratis», dicono. La maggior parte di loro lavora nelle attività della «polveriera», alcuni invece hanno un lavoro esterno e versano il reddito alla comunità.
Gli utili vengono utilizzati per le necessità degli abitanti, reinvestiti nelle attività o utilizzati per finanziare azioni di solidarietà o la rete di Emmaus, l’associazione francese contro la povertà fondata dall’Abbè Pierre della quale fanno parte. Tra i sessanta membri effettivi che la comunità attualmente può contare (ma sono arrivati fino a 150 negli anni ’90) ci sono oggi un pastore protestante, una ragazza, Marise, che rappresenta ormai la terza generazione, quella dei nipoti dei primi occupanti, e che lavora all’ospedale come infermiera, alcuni immigrati musulmani, persone in difficoltà economiche o senza casa che vengono ospitate temporaneamente, ma anche chi ha deciso di sperimentare un modello di vita alternativo, come il friulano Vanni. Lui, che in Italia lavorava per una ditta di spedizioni, per trent’anni ha montato tensostrutture in Belgio e condiviso i proventi della sua attività con i compagni della Poudrière. Voleva andare a Cuba per vivere la revoluciòn, si è invece fermato a Bruxelles. «Sono venuto per una decina di giorni nel ’69 in attesa del visto cubano, in seguito ho chiesto di tornare perché affascinato dalla radicalità di questo laboratorio di vita comunitaria, più umana, che non esclude nessuno e dove l’individualismo non ha diritto di esistere», dice. Alla Poudrière ha incontrato la donna della sua vita, una studentessa che come lui era ospite per provare a vedere come si viveva senza essere proprietari individualmente delle proprie cose. Era l’epoca della trasformazione da comunità religiosa a laica, e così quando i due annunciarono di volere sposarsi, ma solo in forma civile, ci fu una lunga discussione in cui alla fine la loro volontà fu accettata. Oggi alla Poudrière la maggioranza non ha più molto a che vedere con la religione, ma rimane una «spiritualità comunitaria» fusa in un originale impasto con un socialismo autogestionario e antistatalista («dal governo non vogliamo nulla, né sussidi di disoccupazione né pensioni minime») e con un anticapitalismo radicale.
Marx e la demonologia
A Bruxelles ci si chiede da un secolo e mezzo quanto il fatto che Karl Marx abbia vissuto qui per tre anni, tra il 1845 e il 1848, e vi abbia scritto il Manifesto del partito comunista, possa avere influenzato la società e la politica belga. O, al contrario, quanto il Belgio, che per la sua politica «liberale» nel diciannovesimo secolo divenne rifugio di tanti intellettuali (non solo il barbuto di Treviri, ma pure Victor Hugo e Charles Baudelaire, tanto per fare un esempio) abbia influenzato l’estensione del Manifesto, e quanto abbia influito sul pensiero marxiano la visione del proletariato in quell’area industriale dove qualche anno prima, tra il 1830 e il 1837, aveva soggiornato un celebre demonologo, Jacques Collins de Plancy, che non aveva scritto alcun proclama politico né elaborato teorie rivoluzionarie ma pubblicato un dizionario infernale in cui raccontava la leggenda della costruzione del ponte che avrebbe collegato finalmente le due sponde del canale. La prima pietra, secondo il demonologo, fu opera del diavolo, da qui il nomignolo del quartiere. Poi arrivò Marx il quale, considerando la religione, e figuriamoci la demonologia, «l’oppio dei popoli», fece altro. Non avrebbe potuto immaginare che centocinquant’anni dopo tutto sarebbe cambiato ma proprio lì, in quel quadrilatero di stradine oggi affollato di immigrati nordafricani, sarebbe rimasto un piccolo germoglio di quello che aveva seminato.
Angelo Mastrandrea